PNRR, Riforme strutturali e impatto sulla crescita italiana

di Mario Baldassarri

Prima di entrare nel merito delle valutazioni che come Centro Studi Economia Reale abbiamo svolto sull’impatto del PNRR per l’economia italiana, occorre fare tre premesse:

  • la prima è che il piano Next Generation EU vale 570 miliardi e non 750 perché molti Paesi non hanno richiesto tutti i fondi disponibili a titolo di prestiti. Nell’ambito di questo ammontare complessivo di risorse, l’Italia, che sin dall’ origine era il Paese che doveva ricevere una quota più alta di queste risorse e che ha richiesto tutti i prestiti disponibili, assorbe il 70% dei prestiti del Next Generation EU;
  • la seconda è rappresentata dalla differenza tra il Piano di ripresa dell’ UE e quello degli Stati Uniti. Negli USA, l’amministrazione Biden ha annunciato un piano da 1.900 miliardi di dollari e non è stata ad aspettare che ciascuno dei 52 Stati americani varasse il proprio PNRR; lì c’è un governo federale che decide come distribuire 1.900 miliardi.

L’Europa Intergovernativa invece decide a livello centrale di spendere 750 miliardi, poi nei fatti gli stati nazionali decidono di usarne solo 570. Questo secondo elemento è importante, non nel breve, ma nel lungo periodo, per capire ancora una volta che se non si va verso un’unione federale, l’Europa sarà sempre  la solita anatra zoppa dal punto di vista istituzionale, politico e di conseguenza dal punto di vista dell’efficacia delle politiche economiche;

  • la terza premessa è che se l’Italia assorbe il 70% dei prestiti europei, questo implica un profilo enormemente diverso fra i singoli Paesi in termini di debito pubblico. È chiaro che questa è la scommessa che l’Italia sta facendo: lasciamo crescere il debito basta che sia debito buono. Se però questo debito non produrrà una crescita strutturale e permanente del 3%, il problema del rapporto debito/PIL si riporrà fra 3/4 anni in modo molto evidente. L’Italia cioè continuerà ad essere il Paese europeo con un rapporto Debito/PIL tra i più alti della zona euro (con dubbi sulla sua sostenibilità), mentre gli altri Paesi della zona euro saranno a livelli enormemente minori.

Con queste tre premesse è possibile analizzare nel merito il PNRR dell’Italia.

Rispetto alle precedenti versioni, il PNRR presentato dal governo Draghi fornisce indicazioni concrete sulle linee progettuali mentre le versioni precedenti erano francamente inaccettabili da questo punto di vista. Nonostante questo, però il Piano ha qualche vaghezza e carenza.

Vaghezza soprattutto nelle missioni concernenti la transizione ecologica e la transizione digitale, poiché non si comprende appieno la destinazione macroeconomica delle risorse ai singoli progetti e come gli stessi vengono messi a terra.

Carenza soprattutto sul piano delle infrastrutture fisiche materiali. In particolare:

  • non si capisce perché in Italia da nord a sud ci si debba andare soltanto attraverso un cordone ombelicale che corre lungo la tratta Bologna-Firenze-Roma-Napoli-Salerno – forse fino a Reggio Calabria – dimenticando totalmente il versante adriatico. A mio parere manca l’alta velocità Bologna Bari.
  • Dopodiché manca, come alternativa all’Autostrada del Sole e all’Alta Velocità Bologna-Firenze-Roma, l’autostrada tirrenica, cioè la vecchia e cara Livorno-Civitavecchia.
  • Poi manca un collegamento trasversale al centro. In Italia si passa da est ad ovest a nord, tramite il nodo della Bologna-Firenze ed a sud, tramite la Napoli-Bari. Manca quindi un collegamento dal centro dell’Adriatico (cioè il porto di Ancona) al centro del Tirreno (cioè il porto di Civitavecchia). Il che vorrebbe dire anche Alta Velocità Ancona-Orte, che si collegherebbe all’alta velocità sud-nord Firenze- Roma e che dovrebbe avere la tratta di collegamento che porti al porto di Civitavecchia.
  • L’ultimo buco rilevante, a mio parere, si chiama Ponte di Messina. Che senso ha fare l’alta velocità fino a Reggio Calabria e, se possibile, l’alta velocità Messina-Palermo e Messina-Catania – fondamentale per la Sicilia come hub del Mediterraneo – senza il ponte? Come altresì non avrebbe senso fare da solo il ponte di Messina senza l’alta velocità fino a Reggio Calabria e in Sicilia. I due interventi sono per loro natura interconnessi. Il progetto esistente tra l’altro è in larga parte in finanza di progetto, quindi, non richiede grandi risorse pubbliche e fa parte di un quadro di decisioni strategiche politiche entro il quale poi si possono attivare non solo risorse pubbliche europee, non solo risorse pubbliche italiane, ma anche risorse private raccolte sui mercati.

Con questi buchi e vaghezze da chiarire, veniamo allora agli effetti sull’economia italiana.

Gli effetti che abbiamo calcolato come Centro Studi Economia Reale si basano sulle stime disponibili ad ottobre 2021e pertanto “prima” della variante Omicron e “prima” dell’impennata inflazionistica e presuppongono:

  1. che l’Europa utilizzi completamente i 750 miliardi del Next Generation EU;
  2. che l’Italia usi completamente i circa 230/240 miliardi messi a disposizione dal NGEU, ma anche i fondi ordinari strutturali del nuovo piano di sette anni del bilancio ordinario europeo, che ammontano attorno a 8/10 miliardi di euro all’anno per i prossimi sette anni. Utilizzando tutte queste risorse (NGEU + fondi strutturali) sarebbero disponibili circa 35 miliardi all’anno per sei anni dal NGEU e 10 miliardi all’anno per sette anni dai fondi strutturali.

Il modello che abbiamo utilizzato è quello di Oxford Economics perché è integrato per tutti i Paesi del mondo e per tutti i Paesi europei; quindi, l’impatto che ne deriviamo sull’ economia italiana non dipende soltanto dall’ importante sforzo dell’Italia (cioè i 240 miliardi) ma anche dall’ impatto indotto negli altri componenti dell’Unione Europea

In un quadro mondiale nel quale l’economia americana, la Cina e l’India fanno subito da enormi locomotive di ripresa nel mondo già nel 2021, l’Europa si presenta abbastanza bene con una crescita del 4,2/4,7% nel biennio 21-22. L’Italia, includendo le risorse europee di cui sopra, si rimette in linea con la crescita europea, ma dal 2023 in poi l’Europa rientra alla “normalità” di una crescita al 2,5% mentre l’Italia rientra ad una crescita tra l’1 e 1,4% già nel 2024.

Se includiamo l’impatto dei fondi europei del Next Generation EU e dei fondi strutturali, utilizzati almeno al 90%, l’impatto sulla crescita italiana è piuttosto importante. Se l’utilizzo di quei fondi fosse rapido e si traducesse in investimenti e spesa effettiva, la crescita sarebbe superiore al 6% nel 2021 ed al 4% nel 2022.

Qui però emerge subito il tema di fondo per l’Europa e per l’Italia, e cioè che l’impulso dal lato della domanda, ammesso che vengano utilizzati presto e bene quei fondi, è certamente impostante, ma quell’ impulso si esaurisce nell’arco di tre o quattro anni e la speranza è che subentrino poi gli effetti dal lato dell’offerta in termini di aumento della produttività totale dei fattori.

Ricordiamo la premessa e cioè che l’Italia si sta indebitando più degli altri paesi UE, ha un debito pubblico in partenza più alto degli altri, e se la crescita non si mantiene strutturalmente superiore al 3% da qui al 2030 si rischia di veder nascere immediatamente un problema di debito pubblico, anche perché nei prossimi due o tre anni l’Europa dovrà ridiscutere il Fiscal Compact e la BCE dovrà impostare un rientro dal QE.

Ecco allora che diventano determinanti tre riforme strutturali che dipendono da noi e alle quali sono collegati i fondi del Recovery Plan: la riforma fiscale, la riforma della pubblica amministrazione e la riforma della giustizia.

Per il fisco ho da tempo avanzato un’ipotesi di possibile rimodulazione dell’IRPEF a tre aliquote con un azzeramento dell’IRAP o comunque con una riduzione di pari importo del cuneo fiscale e contributivo.

Occorre cioè una riforma fiscale di entità pari a 60 miliardi di euro che, a partire dal 2023, riduca il carico fiscale su famiglie e lavoratori di circa 40 miliardi di euro (con un’Irpef a tre aliquote 20-30-43 per cento rispettivamente sotto i 50000 euro di reddito, tra i 50 ed i 100mila e sopra i 100mila euro) ed il cuneo fiscale e contributivo per le imprese di circa 20 miliardi di euro. Questa riforma non può essere finanziata con i fondi europei e va totalmente coperta con coraggiosi tagli agli sprechi ed alle malversazioni di spesa pubblica (che in tutti i nostri precedenti Rapporti del Centro Studi Economia Reale abbiamo indicato in precisi capitoli di spesa) e con recupero di evasione fiscale con gli strumenti di incrocio dei dati e deducibilità fiscali che abbiamo anche questi indicato negli anni scorsi.

Una tale riforma fiscale significherebbe “spostare” risorse per circa il 3% di Pil e darebbe un contributo strutturale alla crescita attorno ad un 1,5% di Pil, riducendo il tasso di disoccupazione al 7% ed il rapporto Debito/PIl al 125% nel 2028.

Le due riforme della giustizia e della pubblica amministrazione sono pressoché impossibili da misurare da un punto di vista macroeconomico. L’unica ipotesi che abbiamo fatto è quella di dire che, come sappiamo da vent’ anni, queste due riforme ci consentiranno di migliorare la produttività totale dei fattori. Abbiamo quindi ipotizzato un aumento dello 0,5% di produttività totale dei fattori dal 2023 in poi, a crescere fino all’1% a regime nel 2025, nell’ipotesi che le riforme siano completate entro il 2022.

Il rimbalzo della crescita è forte nel 2021-22-23 anche grazie ai fondi europei, ma dopo il 2024 questa spinta tende a esaurirsi. Ecco allora che il passaggio di testimone tra utilizzo dei fondi europei e realizzazione interna delle nostre riforme strutturali si rende necessario, per portarci nella prospettiva 2028-2030 ad una crescita media oltre il 3%. Ciò implicherebbe una effettiva riduzione progressiva della disoccupazione che tornerebbe a fine decennio a livello pre-crisi del 2007, cioè a quel 6,5/7 per cento che avevamo prima della crisi dei subprime, pur tenendo conto di 4 punti di PIL di disoccupazione ombra, che sono contenuti come sappiamo tutti in vari pezzi del mercato del lavoro italiano.

Il debito pubblico in valore assoluto, invece di sfiorare i 3.100 miliardi, si manterrebbe poco sopra i 2.900 e quindi in valore assoluto avremmo circa 180 miliardi di debito in meno. Ma come noto ciò che conta è il rapporto Debito/PIL. Certamente l’impulso dei fondi europei ci aiuta anche in termini di rapporto debito/PIL, ma al 2024, senza riforme strutturali, saremmo ancora tra il 145 e 150% e negli anni successivi al 2028 saremmo ancora al 140%. Per contro, con l’impulso interno della riforma fiscale, della Pubblica amministrazione e della giustizia riporteremmo invece il nostro rapporto debito pubblico al 115% di PIL nel 2028, riducendolo da qui al 2028 di circa il 5% all’anno in tutti gli anni.

Questo ci metterebbe condizioni di credibilità ben più solide per discutere in sede europea nel 2022-23 quali saranno i nuovi parametri dell’Unione Europea in termini di deficit, debito e quant’altro, senza trascurare che nel 2024 forse l’opera di iniezione di liquidità e acquisti di titoli di stato della BCE dovrà andare ad esaurirsi.

Abbiamo quindi un periodo di tre anni per utilizzare bene i fondi europei e per realizzare congiuntamente le riforme strutturali italiane che sosterranno l’impulso di crescita dei fondi europei. Altrimenti nel 2023/24 ci troveremo a forte rischio, perché avremmo avuto l’impulso dei fondi europei aumentando il debito pubblico e non sapendo che rispondere in termini di riforme strutturali interne italiane (senza trascurare il fatto che se non le facciamo gli stessi fondi europei non arriveranno) e saremmo quindi come un cane che si morde la coda.

Infine, effetto Omicron ed aumento dell’inflazione.

Se la variante Omicron raggiungesse il suo apice entro il mese di febbraio per poi rientrare progressivamente nel corso dell’anno, certamente ci sarebbe un freno alla crescita che potrebbe limitare l’aumento del Pil del 2022 attorno al 3%, contro la precedente previsione del 4,7%.

Se l’inflazione dovesse rientrare al 2% all’inizio del 2023, ci sarebbe comunque un effetto di freno sul potere d’acquisto di lavoratori ed imprese che frenerebbe ulteriormente la ripresa del 2022

In entrambi i casi si profilano pertanto rischi seri di una crescita del 2022-2023 ben più contenuta rispetto alla previsioni circolanti nello scorso autunno.

Tutto questo però contiene, a mio parere, un unico chiaro messaggio: le riforme strutturali italiane devono essere fatte ancor meglio e più rapidamente di quanto potessimo permetterci secondo i più positivi profili di previsione fatti nella seconda metà dello scorso anno.